“Mia madre è rimasta incinta a 20 anni e mio padre l’ha lasciata prima ancora che io nascessi. L’ho visto per la prima volta quando avevo 14 anni, ma poi è sparito di nuovo. Nel frattempo, l’uomo con cui mia madre si risposa non si rivela migliore: Beveva, era violento con entrambe. Sin da piccola ho assistito a scene terribili, che ti restano dentro. È qui che cominciai a trasgredire. Per ribellarmi a ciò che mi circondava, per provare a far ascoltare il mio disagio, in una progressione da manuale: prima l’alcol, poi un gruppo di amici senza orari, infine gli spinelli. A 12 anni. Mi sentivo inadeguata, non riuscivo a identificarmi nelle altre famiglie. Da quel momento in poi va sempre peggio: Passando alle superiori allarghi le conoscenze, ma nel mio caso non è stato certo un bene: c’era chi si drogava più di me e io ho seguito loro. A 14 anni ho provato le prime pasticche e da lì in poi ho sperimentato ogni altra sostanza possibile.

Ho dormito per strada con i senzatetto.

Il tempo passa e mi legai alle persone che potevano procurarmi quello di cui avevk bisogno, allontanandomi da amicizie vere e famiglia. Rimanevo per strada anche giorni e giorni. A volte restavo a dormire con i senzatetto nel centro storico di Napoli. Spesso frequentavo i rave party in giro per l’Italia. Il caos è inevitabile: a 16 anni ero già nel tunnel di cocaina ed eroina. Sono state loro a buttarmi giù del tutto. I soldi che riuscivo a racimolare non bastano mai. Non mi alzavo la mattina se non hai un pezzo sul comodino e non vai a dormire se non ne hai un altro a fianco. Allora ho cominciato a spacciare, per procurarmi la droga. Ero completamente allo sbando, e dopo un periodo trascorso a sniffarla, passai a farmi l’eroina via endovena. Non avevo più cura di me. L’unica cosa che pensavo era che presto sarei morta per droga. È a questo punto che fui agganciata da un gruppo di persone che mi proposero di partecipare a una rapina. Io, 22enne senza più bussola, accettai. Mi sentivo come se non avessi nulla da perdere.

Mi sono sentita per la prima volta parte di una famiglia. IL colpo finisce male, ma per me fu, paradossalmente, una fortuna.

Dovevo toccare il fondo per risalire. È in carcere, grazie all’aiuto di alcune detenute decisi di cambiare vita. Ci fu la possibilità della pena alternativa. Trovai posto nella onlus “Papa Giovanni XXIII” di Rimini. Ero spaventatissima, non sapevo cosa mi attendesse. E invece ho scoperto un forte senso di famiglia. Lì è cominciata la mia rinascita. Dopo i primi mesi di assistenza sanitaria e accoglienza, comincia la vera vita in comunità. Ci si alza tutti insieme, si fa colazione e poi ognuno è destinato a un un compito: dalla cucina alla lavanderia, fino ai lavori esterni. Così cominci a riappropriarti della tua esistenza, ma soprattutto a responsabilizzarti. Il pomeriggio, invece, è dedicato alle attività di gruppo con psicologi e specialisti. Ogni sera, verso le 6, arriva poi il momento del resoconto scritto. Anche questo serve a rendersi conto di come sia fondamentale interagire con il gruppo e gioire dei traguardi conquistati con la fatica. Dopo la cena, è la volta di piccoli spettacoli organizzati dagli ospiti della comunità che si occupano del tempo libero. Ho capito che non ero l’unica persona a soffrire.

Naturalmente il percorso di uscita da dipendenze che sono fisiche ma anche psicologiche rimane lungo e tortuoso. Soprattutto all’inizio sei assalito dal desiderio di andare via, sei devastato, ma a poco a poco capisci che devi resistere.

Parallelamente ho proseguito il periodo terapeutico, che varia da persona a persona. Il mio è durato 2 anni, poi mi hanno detto che sarei passata all’ultima fase: il reinserimento in società, per il quale vengono proposte esperienze lavorative o di volontariato. Ricevi una retta, circa 100 euro al mese, con cui impari di nuovo a far fronte alle tue spese. Ed entro mezzanotte devi tornare in comunità. Scelsi di entrare nell’unità di strada per il supporto alle prostitute. Ho lavorato lì per 6 mesi e ho capito che al mondo ci sono sofferenze ben più gravi della mia. Volevo continuare a fare qualcosa per gli altri.

Merito della vicinanza discreta del personale e dei programmi che si portano avanti, come la “storia della vita”. Con un operatore descrivi il tuo passato, toccando vari tasti, dall’affettività alla famiglia fino all’amicizia. Lo scopo è capire perché tu abbia adottato quello stile di vita.

Finché arriva il momento di tornare nel mondo reale. Ero eccitata e impaurita. Dopo 2 anni in cui non vieni lasciata mai sola, non è facile. La comunità è un universo parallelo dove tutti ti danno una mano. La società, fuori, è molto diversa. Oggi ho vinto le mie paure. Sono piena di vita, ho mille idee ed energie. Ho ripreso gli studi, mi sto laureando in Scienze della formazione perché voglio continuare a sentirmi utile”.